Nel corso di queste vacanze, trovandomi a Cracovia, ho visitato il campo di sterminio di Auschwitz Birkenau.
Auschwitz è un luogo di grande rilevanza storica, di memoria, una cicatrice delle atrocità commesse dai nazisti che hanno scosso il mondo.
Auschwitz fu il più vasto e importante complesso di campi realizzato dai nazisti, costruito nelle vicinanze della cittadina polacca di Oswiecim nel 1940 ed era divisa in tre parti: Auschwitz 1 e Auschwitz 3, che erano i campi di lavoro, ed Auschwitz 2, denominato Birkenau, che era il famigerato campo di sterminio.
Auschwitz era per i tedeschi lo strumento per realizzare la grande “Soluzione finale”, eufemismo per indicare la completa estirpazione dal mondo delle “razze impure”, come quella ebraica.
Un razzismo enorme e ingiustificato scaturito dall’odio e dalla umiliazione subita dalla Germania dopo la disastrosa sconfitta della Prima Guerra Mondiale e lo spietato trattato di Versailles.
Appena entrato, a pararsi di fronte a me è stato l’imponente entrata in mattoni, strana nella sua semplicità, con delle vecchie rotaie che finivano direttamente nel campo e che, 70 anni prima, portarono intere famiglie a una morte straziante. Il silenzio crea un atmosfera surreale, che ci rammenta che questo non è un posto per turisti, ma un luogo di riflessione e, procedendo nella visita, me ne rendevo sempre più conto, sentendomi pressato dal peso di ricordi che non erano miei.
Le ultime strutture che ho visitato sono state quelle che più mi hanno colpito, cioè le camere a gas, ridotte in macerie dopo che i tedeschi, nel tentativo di eliminare le prove delle mostruosità compiute, avevano distrutto, prima dell’arrivo dei russi. Vicino ad esse, vi è un monumento costruito dai polacchi nel dopoguerra, che consiste in una decina di lastre di metallo, su ciascuna delle quali, in una lingua diversa, è scritto: “Grido di disperazione ed ammonimento all’umanità, sia per sempre questo luogo, dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei, da vari paesi d’Europa. Auschwitz-Birkenau 1940-1945”.
Prima di partire, per comprendere maggiormente ciò che accadeva nel campo, ho letto “Se questo è un uomo” di Primo Levi, in cui viene raccontata la condizione degli internati negli ultimi anni della guerra, quando, per mancanza di manodopera, la qualità della vita dei prigionieri, seppure sempre disumana, migliorò sensibilmente. Gli internati riuscivano, quindi, a sopravvivere più a lungo, anche per anni, attraversando, però, un lento e atroce processo di disumanizzazione, inevitabile e spesso irreversibile. Una disumanizzazione così profonda che ha portato queste persone a vedere tutto grigio, non sentono più il dolore, la gioia, l’odio, ma soprattutto la speranza, diventano meno di un animale, meno di un oggetto, meno del nulla.
E quando, anni dopo, schiacciati dal peso dei ricordi, si ritroveranno a guardare il numero che hanno sul braccio, verranno catapultati indietro, in quella che sembra un'altra vita.
Auschwitz non è soltanto un luogo di memoria, è anche un luogo di riflessione sul mondo e, soprattutto, su noi stessi, su quello che pensiamo e facciamo, sugli atteggiamenti spesso intolleranti che assumiamo. Come chiaramente ci ricorda Primo Levi “La strage è avvenuta localmente in Germania e non in Italia, e questo ha permesso alla maggior parte degli italiani, di trovarsi un alibi facile, cioè <<Queste cose le hanno fatte loro, non noi>>, ma le abbiamo cominciate noi, il nazismo in Germania è stato una metastasi di un tumore che era in Italia, Auschwitz è intorno a noi, la peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia e coloro che dimenticano il proprio passato sono destinati a riviverlo.”
Valerio Failla
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